Bagheria, Bagaria, Baarìa. È indubbio che tutti conoscano la cittadina, perla d’arte del palermitano, ma è a seconda del nome scelto per chiamarla che si può capire il grado di affezione e intimità che si condivide con questo luogo incantato che, come vuole l’etimologia punica, scivola verso il mare e i suoi orizzonti, con le sue strade prestate a Hollywood.
Negli archivi delle cineteche e nei ricordi dei cinefili, gli anfratti e le ville monumentali di Bagheria sono note, quasi come una cartolina della Sicilia che fu; ma tra le vie del centro, tra i bistrot gourmet, tra i ristoranti stellati, Baarìa è una città viva, tanto da accogliere il suo passato e rivolgersi al futuro.
Lo chef Nino Ferreri, stella Michelin nel 2022, al momento è il presente del paese, con cui ha un rapporto così intimo da averlo eletto a luogo della sua consacrazione alla maturità professionale.
La conca d’oro, a Palermo, forse ha perso un po’ di colore, ma grazie allo chef palermitano e al suo Limu, il retaggio culturale, di quel passato glorioso che caratterizza l’essenza siciliana e che si assapora nelle eccellenze delle materie prime a km0, sta tornando a splendere nelle strade della sua Baarìa.
- Premessa e promessa del suo locale è che nella ricerca dell’offerta enogastronomica d’eccellenza ci debba essere spazio anche per la riscoperta dell’autentica accoglienza siciliana. Ci può confidare in cosa consiste per lei?
Per me l’ospitalità siciliana significa esuberanza, calore, trasporto e spontaneità. Sono delle caratteristiche dell’accoglienza isolana che per noi di Limu sono sia ispirazione che obiettivo. Noi ogni giorno offriamo ai nostri ospiti un servizio, che pur nel rispetto degli standard di un ristorante stellato, vuole mantenere quel calore, quel carattere un po’ verace che ci permette di essere autentici e spontaneo. Il personale di sala che mi affianca è bravissimo ad offrire un servizio elegante, rispettoso dei formalismi, senza essere troppo ingessato. E questa particolarità, forse anche un’esigenza della nostra giovane età, è molto apprezzata da chi si siede ai nostri tavoli.
- La genesi di un grande chef inizia nel passato, nel suo caso in famiglia. Qual è il primo piatto di fattura domestica che ha provato a replicare e c’è qualche aneddoto legato?
Non so se rivedo la mia storia personale nell’incipit di questa domanda. Sì, la mia passione nasce quando ero piccolo e posso anche indicare un momento, un luogo e un piatto che lego al piacere del cibo e alla bellezza di stare in famiglia. Non credo però che le domeniche d’autunno e di primavera in campagna a mangiare pasta al forno con la mia famiglia siano l’anticamera della mia carriera, come è stato per molti miei colleghi.
- Quando allora il giovane Nino ha capito di avere talento tanto da investirci su con viaggi che l’hanno portato lontano dalla sua terra?
Sarò sincero, scelsi la scuola alberghiera quasi per esclusione. A 14 anni ero abbastanza confuso e non sapevo esattamente cosa volessi nel mio futuro. Credo che la consapevolezza sia maturata durante la mia prima stagione lavorativa. Sono sempre stato riservato, però verso i 19 anni ho incominciato a sentire il bisogno di evadere, di scoprire cose nuove. Allora appena diplomato mandai i curricula nei posti più ‘goderecci’, posti in cui c’era il mare, si ballava e la vita voleva essere vissuta a pieno. Ho avuto la fortuna di essere stato preso in un ristorante di Portocervo, però una volta lì ha capito che mi divertivo di più a lavorare che ad andare a ballare, che era quello che volevo dalla mia vita.
- Qual è l’aspetto che più le è mancato della Sicilia nei suoi soggiorni lavorativi all’estero?
A me mancava tantissimo il rapporto umano, il contatto diretto con il piccolo produttore, emozionarmi davvero davanti a una loro storia. Non ne faccio una questione di qualità della materia, perché quando lavoravo a Milano arrivava materia prima di qualità eccezionale, ma io non vedevo chi coltivasse la melanzana, chi la zucchina. Io qui a Bagheria vedo, parlo con chi mi porta il prodotto e ascolto le loro storie, che sono poi quelle che mi piace raccontare ai miei clienti. Mi mancava tantissimo anche il contatto diretto con la terra. Mio nonno aveva la campagna, ora è passata a mio padre, e io la mattina mi alzo presto di buona lena e raccolgo le arance e i limoni e quello che c’è e poi lo porto in cucina. Non credo di poterci rinunciare.
- La particolarità della cucina è che è un movimento di ‘acculturazione’ il più delle volte. Nella creazione dei paradigmi della sua cucina la tecnica, soprattutto quella che lei ha appreso in Francia, gioca un ruolo fondamentale. Ma lei è riuscito a portare o a far conoscere qualche tecnica tipicamente siciliana, o ingrediente, quando ha lavorato all’estero?
Sì. Certamente. Io sono stato fortunatissimo e ho spesso trovato ambienti dall’alto tasso di sicilianità. In Svizzera allo Le Chalet d’Adrien, in cucina con me c’erano tantissimi amici di Catania, come Giuseppe Raciti e Simone Strano, mentre a Milano da Felix lo Basso ho avuto l’opportunità di fare le prove generali del concept del Limu. Gli ultimi due anni, lo chef viaggiava spesso verso la Puglia e nel menu del Felix lo Basso Restaurant c’era davvero tanta Puglia tra gli ingredienti, ma anche tanta Sicilia. La mia interpretazione della Sicilia parte dagli ingredienti e racconta il territorio. Per me la tradizione è da trattare con reverenza. Ci sono delle ricette iconiche, come il cannolo o la cassata che non possono essere rivisitate, perché la loro immagine è troppo radicata nell’immaginario comune.
- Come vede il suo Limu da qui a un anno?
Io, la brigata e il personale di sala siamo molto concentrati a migliorare il Limu, però non vogliamo lavorare sotto pressione di un obiettivo categorico. Posso dire assolutamente che ‘stiamo cavalcando l’onda’ e abbiamo accolto il riconoscimento come un motivo per investire su di noi. Stiamo ampliando la carta dei vini che dopo soli 2 anni di ricerche ha più di 400 etichette; stiamo cercando nuovo personale, perché credo fortemente che si debba lavorare con calma, lucidità, concedersi il tempo di creare ed esistere oltre il lavoro. Quindi da qui a un anno l’unico ulteriore riconoscimento a cui ambisco è quello che mi può dare il commensale. Voglio che chi si sieda al Limu percepisca che, dietro la tovaglia inamidata e le stoviglie luccicanti, c’è una squadra che ‘suda’, che lavora, che ha ambizioni e che si vuole migliorare.
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