Licata sbriciola le sue coste a Sud, nella Sicilia che profuma di isole mediterranee e di Nord Africa, il paesaggio è quello tipico meridionale delle lenzuola stese ad asciugare al vento davanti alle facciate scarne delle architetture a mosaico, le stesse della resistenza popolare della gioventù di Rosa Balistreri.
Nell’asfalto piano e tra le saracinesche abbassate la vita in quarantena scivola lenta ma non inoperosa, è una moviola che riserva opportunità, così la vede Pino Cuttaia che la osserva da dietro i vetri delle sue attività di Corso Re Capriata, nel centro di Licata, da dove nel 2000 ha iniziato con la moglie Loredana una ristorazione fatta con le solide fondamenta della memoria, inanellando 2 stelle Michelin, la prima nel 2006 e la successiva nel 2009.
Le reti dei pescatori accatastate in spiaggia somigliano al lavoro di Cuttaia: bisogna averne cura e ricucirle quotidianamente con abilità per farle funzionare, l’intreccio fitto è figlio di un gesto generazionale che ricama ad arte e tesse insieme cultura, ricerca del cibo, etica.
La visione di Cuttaia sembra una proiezione omerica nella quale siamo tutti Ulisse sulle rotte della nostra Odissea e la quarantena è una delle necessarie disavventure per ritornare a Itaca, quel porto sicuro fatto di nuove consapevolezze personali e ambientali.
In questo tempo di distanze, il telefono annulla lo spazio e mi connette con il cuoco-pensatore per ascoltarlo in una dimensione profonda, come il significato delle parole che lo Chef formula con il suo accento ancora intriso dell’andatura distesa del piemontese, frutto di quei luoghi a lungo vissuti negli anni di formazione. Risponde a tutte le domande e le sue risposte, con quell’incedere pacato e permeante, sono più che lenitive, quasi una cura per questi giorni malati.
Di cosa si sta occupando adesso? Come procedono le sue giornate?
“Avendo il ristorante quasi sotto casa, tutte le mattine scendo e, a porte chiuse, cerco di mettere la stagione in un vaso. In questo periodo la Sicilia è fertile di prodotti, di ortaggi e di erbe spontanee, ne faccio conserve come si farebbe con i pomodori. Il concetto è questo: dato che la terra non si ferma, sarebbe bello far assaggiare agli ospiti che verranno quella parte di stagione di cui si sono privati.”
Riesce a fare qualcosa di concreto per la sua comunità?
“In qualità di presidente dell’Associazione Le Soste di Ulisse, in questi giorni sto sentendo il mio vicepresidente e il direttivo per capire come supportare alcune iniziative: se si dovessero creare dei campus come a Palermo o a Catania, in coordinamento con le istituzioni e la Protezione Civile, attiveremo quell’operatività necessaria per occuparci dei pasti del personale medico e paramedico. Speriamo che non ce ne sia bisogno, ma siamo pronti a scendere in campo. Il cuoco è anche questo: un soldato pronto a scendere in prima linea per sostenere il fabbisogno quotidiano.”
L’isolamento è una situazione (più o meno temporanea) che tocca certe aree del Mediterraneo, una condizione imposta: penso alle Eolie, a certe isole della Grecia, disconnesse alle prime avversità meteo. Un fatto culturale che ci appartiene, non sarà difficile per i siciliani rispettare le regole?
“La cultura di un popolo nasce attraverso una necessità, da questa condizione verranno fuori abitudini, costumi. Attiveremo comportamenti nei quali si recupereranno dei gesti arcaici, come io faccio in cucina, attraverso la ricchezza della nostra biodiversità re-impareremo il vantaggio di poterci sostenere ed essere sostenibili. Faccio un esempio: il riscatto sociale dei nostri genitori era che il figlio diventasse avvocato o ingegnere, io oggi direi a un giovane fai agraria, diventa contadino perché la terra non si ferma mai e qualcosa a casa porti sempre. Rispetteremo di più il senso della terra e del sacrificio quotidiano, questo periodo sabbatico ci cambierà tantissimo nelle nostre riflessioni e daremo poco valore al superfluo. Noi guariremo la terra così come ci guariremo noi.”
Ha un suggerimento per vivere meglio queste giornate, magari un consiglio da dare ai più giovani?
“La cosa bella da poter fare in questo momento è la gestione del tempo: una programmazione efficace per imparare a scandire la giornata con rigore. Questo tempo ha un valore, esercitiamoci a vederne la bellezza, usiamolo per cambiare le abitudini sbagliate, l’innovazione è lì: recuperare qualcosa che abbiamo dimenticato o non usiamo bene. Io organizzo una manifestazione che si chiama Nnumari, letteralmente nel mare, è una spinta al recupero del gesto, alla conoscenza dello stesso ingrediente, dello stesso paesaggio del Mediterraneo, dove la distanza è solo temporale e climatica, un tema attuale: ogni persona può recuperare e scambiare sapere.”
Come immagina il futuro dell’alta ristorazione? Cosa dovranno fare gli Chef per tornare ad emozionare i commensali?
“Il punto di vista per me è invertito: la prima cosa che aspetterò riguarda la gente che dovrà riacquisire la fiducia negli altri, quel saper stare insieme, ci dovremo rieducare, come un bambino che deve ricominciare a camminare. In questo il cuoco può fare ben poco, potremo concentrare di più le giornate per gestire meglio i costi. Ci adatteremo a quel che verrà, per il resto è presto per dire come sarà, ma ciò che prevedo è un’estate italiana: ci saranno queste ventate di tanti italiani, penso agli emigrati del Nord che torneranno alle proprie radici e a chi vorrà riscoprire il proprio paese. Se apriremo la stagione intorno a maggio/giugno io immagino questo scenario dove mancheranno gli stranieri o saranno davvero pochi e vivremo un momento di riscoperta. Sì, ne sono certo, sarà un’estate italiana.”

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