Un risultato molto sperato ma incerto fino all’ultimo a causa del muro di dubbi eretto sin dal giorno della sua candidatura. E in particolare dal momento decisivo, quello in cui ha dovuto concorrere nell’ultima selezione di 10 città aspiranti al titolo. L’elezione di Agrigento a Capitale italiana della Cultura per il 2025 lo ha squarciato.
Senza però abbatterlo ancora. A un anno e mezzo dal via alla fitta progettualità di eventi che aprirà riflettori internazionali sulla Città dei Templi, insieme con Lampedusa, 25 comuni del territorio
territorio e almeno una sessantina tra associazioni culturali, distretti, aziende agricole e confederazioni sindacali, è ancora incontestabile una carrellata di problematiche per la cui soluzione urgerà correre.
Il riferimento è al purtroppo annoso tema dei disservizi, delle insufficienze infrastrutturali, a cominciare dalla viabilità, nonché di manifestazioni di inciviltà radicata, come il malcostume di abbandonare rifiuti ai bordi delle strade, lungo i confini di quel vasto e ricchissimo contenitore di bellezza che è il suo Parco archeologico affacciato sul ‘mare africano’, come lo chiamava Luigi Pirandello, il cittadino più illustre dell’epoca moderna di Agrigento.
AGRIGENTO : MISCELA DI STORIA E BELLEZZA ARTISTICA
Una realtà, il Parco della Valle dei Templi, da un milione di visitatori all’anno che agli occhi di turisti e residenti testimonia l’appropriatezza della definizione di ‘più bella città dei mortali’, coniata del poeta greco- siceliota Pindaro, 2.500 anni fa. Ovvero, l’epoca in cui l’antica Akràgas, appena fondata da coloni ellenici provenienti dalle isole di Rodi e Creta, cominciò a brillare di luce propria tra le potenze militari e culturali del Mediterraneo.
Terra di paradossi, Agrigento. Non a caso Pirandello vi incentrò l’intera sua opera letteraria. Tocca, da adesso, scardinare quello che ha accompagnato la sua candidatura a prossima capitale culturale del Paese.
Perché di visitatori, come dimostrano già i le statistiche di questa prima metà dell’anno, ne arriveranno sempre di più, e da ogni parte del mondo, al cospetto dei suoi templi dorici dedicati agli dei dell’Olimpo. La pietra calcarenite di questi monumenti sembra fiammeggiare al tramonto sopra il cosiddetto ‘arborato misto’ che tappezza la Valle e il territorio ad essa circostante. Uno scenario agreste di uliveti e mandorleti, vigneti e campi di grano, che incantò tanti viaggiatori del passato: dal geografo arabo Al-Idrisi, giuntovi nel 1138, al pittore Jean Houel, alla fine del 1700; così come Wolfgang Goethe, al termine del suo Grand Tour italiano nel 1787.
Una miscela di storia e bellezza artistica, mito e mistero che si respira anche nel centro storico, di matrice araba, di Agrigento. Il 19 luglio di 57 anni fa una frana spaventosa, provocata dallo scellerato boom edilizio degli anni ‘60, dissestò una parte della collina occidentale, costringendo migliaia di cittadini a evacuare. Occorse trovare in fretta dimore alternative anche per le opere d’arte custodite nelle chiese coinvolte nel sinistro. Un’emergenza che riguardò soprattutto il patrimonio di sculture, affreschi e intarsi custoditi nella Cattedrale di San Gerlando, straordinario edificio di stili amalgamati, ubicato sul punto più alto della città. Nella chiesa madre di Agrigento si trovavano in particolare quattro sarcofagi di manifattura romana e greca: tutti splendidi. Uno in particolare, quello dedicato al mito di Ippolito e Fedra, datato al II-III secolo dopo Cristo, sbigottì proprio Goethe. Al punto da fargli scrivere: “Credo di non aver mai veduto cosa più stupenda in fatto di bassorilievi, né più perfettamente conservata”.
Gli altri tre manufatti sono quello delle “donne coronarie” (risalente allo stesso periodo del primo, chiamato così perché rappresenta due figure femminili impegnate nell’intreccio di corone d’alloro) e due sarcofagi più semplici, di età greca, realizzati nel V secolo avanti Cristo, il periodo che precede di poco l’apice di splendore raggiunto dall’antica Akràgas.
Struggente la vicenda rappresentata nel sarcofago più famoso. Gli incredibili intarsi sui lati del cassone narrano di Fedra, sposa del re Teseo, follemente innamorata di Ippolito, figlio di un precedente matrimonio del marito, il quale però la respinse, per cui lei, umiliata, si uccise. Quando Teseo scoprì il cadavere e un biglietto in cui la moglie accusava Ippolito di averla violentata, lanciò un anatema mortale nei confronti del figlio innocente, che si mise in fuga, ma inutilmente. Terribile tragedia eternata nel marmo che, però – come sottolineano al Museo diocesano di Agrigento – “al contrario della matrigna Fedra, simboleggia, attraverso Ippolito, la fedeltà all’idea di purezza dell’uomo che resiste alla tentazione”.
Dopo la frana, questi splendidi manufatti erano stati tutti trasferiti: quello di Ippolito e Fedra, nella Chiesa di San Nicola all’ingresso del Parco della Valle dei Templi; gli altri in un’ala del Museo Archeologico Regionale, accessibile solo agli studiosi. Da due anni sono tornati tutti a San Gerlando, a simboleggiare il rilancio del centro storico di Agrigento.
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