Certezza pasquale, un po’ come per tutte le ricorrenze festive in Sicilia, è che sulle nostre tavole non possa mancare qualcosa di dolce, anche più di qualcosa a dirla tutta, che renda le giornate ancora più piacevoli. Le tipicità che da parte a parte dell’isola definiscono la Pasqua sono molteplici, se ne potrebbe stilare un lungo elenco, noi ci sforzeremo di individuare le più identificative in un ideale viaggio alla scoperta delle preparazioni predilette.

La cassata palermitana
«Tintu è cu nun mancia a cassata a matina ri Pasqua» – recita un antico proverbio, e del resto regina indiscussa della Pasqua, anche se ormai non manca neanche a Natale o in una domenica speciale sulle tavole dei palermitani, è proprio la cassata. Più celebre nella sua versione ricca con glassa bianca e lucidissima frutta candita con la denominazione di “Cassata di Gulì”, il più noto maestro pasticcere che la storia palermitana possa annoverare, è in realtà “recente” rispetto alla sua primissima versione al forno, meno appariscente ma altrettanto buona e apprezzata.
Erroneamente si pensa sia un dolce di origine araba, l’origine invece è più probabilmente dal latino “caseatus”, una pietanza a base di formaggio. Le prime tracce si reperiscono in un antico ricettario del ‘600, trovato a San Martino delle Scale, dal quale si evince che la cassata, nella sua forma più antica che è proprio quella al forno, non era concepita come un dolce bensì come involto di pasta con dentro della ricotta o del formaggio. Solo successivamente, le importanti modifiche apportate come ad esempio l’aggiunta di zucchero all’interno dei monasteri, l’ha resa via via sempre più simile a quella che oggi amiamo. La cosiddetta “Cassata di Gulì” invece nasce circa un secolo dopo, tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800. Come ci ha raccontato Maria Oliveri de “I Segreti del Chiostro”, il laboratorio artigianale nato nel 2017 con la riapertura del Monastero di Santa Caterina, la cassata palermitana glassata in realtà fu resa celebre da Gulì che però non ne fu l’inventore.
Realizzata con pan di Spagna, ricotta e pasta reale, così come chiamavano in passato il marzapane, la cassata era un dolce diffuso soprattutto nelle case nobiliari del ‘700 con la cucina dei monsù. Se oggi la si definisce cassata siciliana un tempo era invece nota come cassata palermitana, infatti solo nel tempo le altre province hanno subito l’influenza di Palermo nella preparazione di dolci a base di ricotta. Il cavaliere Salvatore Gulì, la cui rinomata pasticceria sorgeva lungo il Corso Vittorio Emanuele a Palermo, ebbe il merito di esportarla in tutto il mondo in apposite casse metalliche e con la sua celebre decorazione del capello d’angelo, che gli valse non pochi premi, contribuì a darle l’aspetto con cui oggi è riconoscibile da parte a parte del pianeta. La pasticceria ormai non esiste più e sono lontani i tempi in cui forniva le case reali in tutta l’Europa della “belle epoque”, eppure nel ricordo di molti è a lui che se ne deve la creazione.
Più probabilmente la cassata nasce invece all’interno dei monasteri, capitanati proprio da quello di Santa Caterina a Palermo, dove le monache, gelose delle loro ricette che non hanno mai trascritto e di cui non si sono diffuse con certezza le dosi, preparavano i dolci che finivano poi sulle tavole dei nobili. Fino a non molto tempo fa del resto quella del dolce era una prerogativa lussuosa per pochi, o quanto meno solo nelle più speciali occasioni. Mantenere i monasteri era esoso e allora attraverso la vendita di dolci, pasta e pane, le monache riuscivano ad avere una fonte di reddito per rispondere alle loro necessità. In tal senso, e per arginare forse una vendita “troppo sfacciata”, sono stati ritrovati documenti in cui i vescovi tentavano di regolamentare questo “mercato”.

Gli agnelli di Favara
Proseguendo il nostro dolcissimo viaggio alla volta della provincia di Agrigento, più precisamente a Favara, si scopre tutto un mondo che va ben oltre la settimana di Pasqua, quello degli agnelli in pasta di mandorla con ripieno al pistacchio. La tradizione narra che le prime a preparare questo dolce furono le suore del Collegio di Maria del quartiere “Batia” di Favara. In realtà c’è una seconda ipotesi che associa la sua preparazione a due dolcieri di una nobile famiglia che, con la frutta secca messa a loro disposizione, avrebbero dato vita a questa creazione unica nel suo genere. L’innocenza e la mancanza di colpa che sono alla base del simbolismo dell’agnello nella religione cristiana ne hanno determinato la diffusione durante il periodo pasquale.
Proprio a Favara però, si trova un luogo, il laboratorio artigianale a conduzione familiare “Cosi Dunci”, che dal 2017 ha dato vita ad una diffusione di questi tipici agnelli addirittura per trecentosessantacinque giorni l’anno. È Eleonora Cavaleri, la sua fondatrice, a raccontarci di come abbia dato avvio a questa vera e propria scommessa ormai sette anni fa, per realizzare il sogno di papà Pino, venuto a mancare pochi anni prima. L’uomo era un produttore di mandorle con cui riforniva molte pasticcerie della zona, ma a casa Cavaleri sono da sempre maestri nella produzione degli agnelli. Così tanto bravi che non erano poche le richieste, proprio nel periodo pasquale in cui li realizzavano per regalarli ad amici e parenti, per acquistarli. Da lì Pino inizia ad accarezzare l’idea di trasformare quella consuetudine in un vero e proprio lavoro, così appena tre anni dopo la sua scomparsa, la figlia Eleonora realizza il suo sogno. Nasce così “Cosi Dunci” che, non solo produce ancora oggi gli agnelli con la ricetta tradizionale tramandata dal convento a base di pasta reale, con lavorazione a caldo di mandorle tritate, acqua e zucchero, e lo speciale ripieno in pasta di pistacchio, ma lo fa tutto l’anno. Questa è la vera sfida. Grazie alla Farm Cultural Park del resto Favara è divenuto luogo turistico e per Eleonora, essere l’unica produttrice della zona ad offrire la possibilità di reperire il dolce più tipico ed identificativo ogni giorno, è non solo una scommessa ma anche ragione di orgoglio.
Qual è però la storia dell’agnello pasquale di Favara? Data la grande produzione di questo dolce, nel 1994 Favara è stata denominata “Città dell’Agnello pasquale”, istituendo addirittura una sagra che si tiene annualmente. Nell’edizione 2003 della sagra è stato addirittura realizzato un agnello di 202 kg che è entrato nel Guinness dei primati. Il riconoscimento è arrivato al borgo per volontà dell’amministrazione comunale e pare che persino il “Papa buono”, Giovanni XXIII, avrebbe assaggiato negli anni ‘20 del novecento gli agnelli favaresi mentre era in visita ad Agrigento, apprezzandone la bontà.

I pupi con l’uovo di Bagheria
Per completare lo zuccheroso tour delle tavole pasquali torniamo sino alla provincia di Palermo, a Bagheriaper la precisione, dove ciò che non può davvero mancare sono i “Pupi con l’uovo”. Si tratta di un biscotto tipico siciliano e di tutta l’Italia meridionale, ma con diversa denominazione, a base di pasta frolla e uova.
La sua storia è antica ed è legata alla cultura religiosa: è facile capire come l’uovo, simbolo della natura che schiude la nuova vita, diventi portatore dei valori cristiani della Pasqua. Per la religione cattolica la quaresima è un periodo di rinuncia, in passato per tutto questo periodo erano infatti vietate non solo le carni, principalmente di gallina all’epoca, ma anche le uova dell’animale. Così le uova in casa si accumulavano e venivano regalate per i giorni di Pasqua, arricchite da decorazioni o, nel tempo, divenute lo scrigno all’interno di un particolare biscotto dalla consistenza morbida, decorato con albume e zuccherini colorati, simbolo festoso della resurrezione. L’antica ricetta in realtà sostituiva al biscotto di frolla la più “povera” pasta di pane.
Massimo Scaduto e la moglie Anna, proprietari dell’Antica forneria Scaduto dal 1950 a Bagheria, ci hanno ricordato di come questi biscotti fino a qualche decennio fa non erano solo acquistati presso i panifici della cittadina ma, spesso, preparati in casa e poi portati da loro per la cottura. Tradizioni delle nonne e simbolismi ormai perduti, come le forme, oggi più semplici ma una volta ben più articolate, come ad esempio i cuori che la fidanzata regalava al ragazzo o il cestino che quest’ultimo donava a lei. I pupi venivano realizzati spesso anche a forma di colombe o campane, ma rigorosamente con l’uovo al suo interno. Oggi sempre più si sta diffondendo la versione povera che non prevede la presenza dell’uovo e, inevitabilmente, incide però sulla consistenza e sul sapore del biscotto.
Tre i dolci esempi citati, è innegabile però che la tradizione dolciaria siciliana sia ben più vasta e inoltre legata a ricordi e sentimenti antichi, momenti trascorsi con mamme, nonne e zie, gesti reiterati nel tempo sino a divenire consuetudini che, purtroppo in molti casi, si sono perse o rischiano di farlo.
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