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Balice, ovvero come traghettare la più autentica tradizione messinese nel futuro. 4 Chiacchiere con lo  chef Giacomo Caravello

Giacomo Caravello

Balice:  ovvero quella tecnica di conservazione tipicamente messinese del pesantone, ovvero una piccola palamitam sotto sale. Questo nome per un ristorante, meta di gourmand siciliani consigliata anche dalla guida Michelin e dal Gambero Rosso, mi sembrava davvero curioso, fin quando ho avuto modo di parlare con lo chef Giacomo Caravello.

Balice indica la storia, quella di cui ci si appropria per rimanere in vita e proiettarsi al futuro; indica la gratitudine e il rispetto per la propria terra; indica la volontà di onorare i frutti della natura e la sacralità con cui si tratta il cibo. Balice simboleggia perfettamente l’idea di cucina che lo chef Caravello offre con cura ai suoi ospiti.

  • Lei dice che ogni piatto racconta una storia. Oltre quella collettiva, c’è anche una storia squisitamente personale.

Nel menu attuale, ovvero quello primaverile c’è un piatto che racconta sia la tradizione della mia terra, sia le suggestioni di un mio viaggio, ovvero i ravioli del plin alla ghiotta, esclusivamente al tovagliolo. I ravioli al plin sono un piatto di ispirazione piemontese che mi ha colpito particolarmente e ho pensato potesse essere un ottimo ‘stratagemma’ per fare mio un piatto della mia terra come il baccalà alla ghiotta. Sa ,quando ci si approccia alla tradizione bisogna essere rispettosi, attenti. Il baccalà alla ghiotta è un’istituzione a Milazzo e io non mi voglio macchiare di vilipendio; quindi, ho cercato di mantenere la sua bontà, ma facendolo mio. 

  • Ho letto attentamente il menu corrente di Balice e mi ha colpito che le uniche parole in siciliano che ha usato sono ‘atturrata’ e ‘astrattu’. Come mai?

Non mi piace molto utilizzare il dialetto siciliano nel menu per non cadere nello stereotipo e diventare una macchietta. Utilizzo il siciliano quando diventa l’unica lingua per esprimere un oggetto, un senso, un’identità. Io potrei dire mollica tostata, ma la mollica atturrata è una cosa così tipicamente siciliana, così connessa con la storia, così personale che per me è intraducibile. Idem con l’’astrattu’. Utilizzare il termine estratto o concentrato di pomodoro mi avrebbe ridato un’immagine da supermercato e avrebbe escluso tutta quella tradizione e la tecnica che implica la parola ‘astrattu’.

  • Ha aperto il ristorante poco prima del lockdown. Quel periodo professionalmente parlando, cosa ha cambiato?

Quel periodo mi ha dato modi di prendere coscienza da un punto di vista imprenditoriale. Mi sono trovato ad affrontare problemi in maniera preventiva. Poi ho avuto tanto tempo per me, per dell’introspezione che è servita sia come a ricerca dei piatti, che come indicazione del metodo imprenditoriale. Ho capito che voglio dedicare il giusto tempo, quantitativamente e qualitativamente, alla mia vita privata e quindi cerco di dare al mio locale dei ritmi ‘umani’.

  • Lei è, insieme al WWF, impegnato in un progetto pesca ‘sostenibile’. Di recente la notizia che sono riusciti a ricreare, oltre la carne, anche il pesce sintetico. Lo userebbe?

Non mi sono informato benissimo perché non ho avuto tempo e la vedo anche come un’eventualità molto lontana qui in Italia, dove queste pratiche sono illegali. Io miro alla sostenibilità della mia cucina, ma rimango molto fedele alle possibilità della natura. Penso che ad oggi risponderei che preferisco rinunciare a dei pesci, qualora il loro consumo sia problematico per la natura, piuttosto che usare prodotti sintetici.

Le forzature non mi piacciono e poi quando dico che la mia cucina vuole raccontare delle storie, mi piace raccontassero anche le storie dei produttori locali, storie che io ho modo di ascoltare e che per me sono fondamentali nella scelta degli ingredienti.

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